Giuliana Carli
11-03-2021
Le donne di Fukushima è stato scritto nel 2013 in occasione del Convegno SIL (Società Italiana delle Letterate) “Terra e parole- donne riscrivono paesaggi violati” tenutosi a L’Aquila (8-10 Novembre) per dare voce, nel luogo martoriato da un sisma, alle donne che da quattro continenti riportavano esperienze affini. Il volume che contiene quest’articolo è stato pubblicato come e-book nel 2016 a cura di Roberta Falcone e Serena Guarracino
Di alcune donne e bambine, ora adolescenti in buona salute compatibilmente con il supporto delle terapie necessarie, abbiamo seguito i passi. Nonostante le perdite intercorse, proseguono le loro vite a Fukushima.
L’11 marzo 2011 la terra trema in Giappone scuotendo da nord a sud le isole dell’arcipelago, ma l’epicentro è nel nord est, nella zona del Tohoku si registra una scossa di magnitudo 9. Segue allerta tsunami, che arriva puntuale, poi salta la centrale nucleare n. 1 di Fukushima, 11 reattori vengono colpiti dal sisma. Due mesi dopo le vittime accertate sono 15.057, i dispersi 9.121 ((per ripercorrere le fasi tragiche e concitate post sisma e comprendere come sia stato trattato l’evento ai vertici governativi della TEPCO-responsabile legale delle centrali nucleari si rimanda al testo che chi scrive ha avuto modo di apprezzare più di ogni altro: Pio D’Emilia, “Tsunami nucleare-I trenta giorni che sconvolsero il Giappone”, il manifestolibri, Roma, 2011). Di malati per le radiazioni ancora non si parla. A Fukushima i sopravvissuti al terremoto sono stati decimati dallo tsunami, e i superstiti cercano ora di sopravvivere alle radiazioni. Il coincidere di tanta violenza della natura con quella armata dall’uomo, che vogliamo ancora immaginare non intenzionale, non ha precedenti. Non c’è un lutto più doloroso di un altro, ma quando una serie luttuosa di eventi si sussegue, togliendo il respiro e lasciando a chi resta un senso di impotenza soverchiante, per voler vivere-nonostante-tutto si può ripartire solo dalla fiducia nel divenire. Il 22 ottobre 2013 la terra ha tremato ancora, violentemente; l’allarme tsunami codice giallo ha annientato in pochi minuti due lunghi anni di tentativi fatti, con bambini e adulti, per allontanare gli incubi della morte, della sete, dell’abbandono. Qualsiasi forza residua animi i superstiti di quell’esperienza, da sola non basta a ricostruirsi e ricostruire: ha un disperato bisogno di sostegno, di ascolto e solidarietà, di lavoro e comprensione degli eventi; servirebbero competenze mediche, scientifiche, e di estetica, intesa come disciplina da contrapporre nella teoria e nella pratica all’angoscia dei lutti. Di tutto questo, possiamo offrire un nulla rispetto ai bisogni, tuttavia ogni tentativo onesto di vicinanza viene accolto con commovente riconoscenza da chi teme di restare isolato nella tragedia, sia essa personale o di un intera comunità. In questa direzione va l’unico sforzo possibile a tanta materiale distanza: prestare una voce perché arrivi la loro. Il Giappone, estremo oriente geografico, evoca spesso la necessità di una specifica culturale; qui appare superflua, per la specificità di alcuni eventi vissuti al femminile in una dimensione immediatamente condivisile.
L’incontro con le donne di Fukushima non è stato casuale. Passata la prima ondata di dolore e attivismo a distanza, sfociata in una miriade di iniziative per l’invio di aiuti materiali, chi da sempre aveva contatti con quella terra lontana ha mantenuto un rapporto costante, ognuno il proprio, con l’evolversi dei fatti. Per caso, poi, per ovviare ad un prevedibile ostacolo di comunicazione, si è resa necessaria la presenza a Roma di volontari che conoscessero il giapponese. Volontarie, io ed altre, lo siamo diventate, con rapido coinvolgimento. Chiunque lo avrebbe fatto quando un sabato di giugno del 2011 arrivarono a Roma 2 mamme con una bimba di 4 anni e un maschietto della stessa età .Dopo di loro, una trentina di mamme con i loro bambini si sarebbero alternate sino a fine settembre. Tutte avevano aderito al programma di solidarietà organizzato da ENIT (Ente Nazionale per il Turismo Italiano, con sede anche a Tokyo) e dall’associazione Italian Friends for Japan. Ottima cosa aver tempestivamente stanziato i fondi, sarebbe stata necessaria anche una maggiore cura del viaggio e del soggiorno di queste donne, ma forse i tempi stretti non hanno consentito di preventivare le difficoltà ovvie che si sono presentate non appena sbarcate a Fiumicino. Così è stata data a noi la fortuna di incontrarle. Nessuna di loro parlava italiano, né era mai stata in Italia. Atterrate in un paese sconosciuto, frastornate dalla loro stessa risolutezza che le aveva spinte fin qui con bagagli piccoli e solo una vaga idea di quel che avrebbero trovato, a dar loro il coraggio di affrontare l’incognito, mediando con la preoccupazione e la nostalgia per gli altri cari lasciati nella terra ferita e quasi certamente contaminata – allora molte verità non erano ancora note- è stata senza dubbio la certezza di poter dare ai bambini momenti di serenità e speranza.
A partire dalla gratitudine mostrataci per poter parlare nella loro lingua ed esprimere i bisogni essenziali, per finire con il sorriso che finalmente in alcuni momenti si stampava improvviso sui loro volti- e che con repentino cambio diventava a volte pianto, a volte muta preoccupazione- abbiamo condiviso il possibile, qui, lontano dalla terra che trasudava morte e malattia. Chiameremo le bambine Momo e i bambini Taro, e tutte le mamme che abbiamo incontrato solo okaasan (mamma). In effetti, avevano tutte un tratto materno in comune: la preoccupazione latente e ben celata che i piccoli potessero essere stati contaminati. Nel rispetto del pudore e del ritegno che ognuna di loro mostrava nel parlare della tragedia, non riferiremo tutto quanto a fatica ci hanno detto, o è stato possibile comprendere dalle loro parole, mentre possiamo cercare di trasmettere le sensazioni intense e le cognizioni inaspettate che l’incontro con loro ci ha lasciato. Dopo l’11 marzo 2011 abbiamo tutti cercato di capire, scientificamente e umanamente, quanto fosse accaduto. Grazie al web e ai media, dopo qualche giorno sembrava tutto chiaro; dopo alcune settimane lo era tanto da far spavento. Qualcosa di quel che non potevamo immaginare ce lo hanno svelato a poco a poco i loro gesti, le loro reazioni . Che il suolo fosse contaminato dalle radiazioni provocate dallo scoppio dei reattori nucleari, lo sapevamo. Quel che pur sapendo sfuggiva, è che ai bambini in particolare era stato necessario imporre alcuni divieti: vietato stare all’aria aperta, vietato camminare a piedi scalzi, vietato giocare con la terra, vietato mangiare molte pietanze. Così quando Momo e Taro si sono tolti i sandali rimanendo a piedi nudi sulla sabbia di Ostia, le loro grida di gioia e stupore hanno rivelato quel che telecronache e instant book non potevano raccontare: ad esempio il piacere semplice e negato- forse lì per sempre, viene da pensare ora- di toccare la sabbia e camminare sulla riva del mare. Tenevo per mano Momo sulla battigia, la sua mamma accanto a noi, quando con sguardo e udito all’erta ha detto “Qui non arriva lo tsunami, vero mamma?” .
Sappiamo ora che molte delle mamme e dei piccoli – nel frattempo e fino ad oggi le percentuale delle persone contaminate è aumentata costantemente- che abbiamo incontrato sono risultati positivi al cesio, livelli che richiederanno un monitoraggio a vita e che hanno già prodotto disturbi irreversibili. Tornata in Giappone, la mamma di Momo nell’ottobre del 2011 scriveva:
“Abbiamo traslocato di nuovo, è stata una gran fatica ma mi sembra un sogno ora potermi collegare a internet. Le analisi delle urine di Momo evidenziavano qualcosa di alterato e abbiamo dovuto ripeterle in un’ altra struttura, lei e tutti noi di famiglia. Risultato: mio suocero, Momo ed io siamo risultati positivi al cesio e allo stronzio. Fortunatamente, se di fortuna si tratta, i livelli di Momo sono i più bassi. Pare che chiunque si trovasse nel raggio di qualche centinaio di metri dalla centrale abbia inalato quantità pericolose di sostanze tossiche. A noi è stato detto di fare tutto il possibile per espellerle, terapie a mo’ di esperimento, e tra un mese ripeteremo le analisi. Pensando a quanto avviene nel nostro corpo e a quanto ci dicono di fare, a dove mi trovo, sento il gelo dentro. Ne ho parlato con mio marito, ed è deciso che rimarremo qui, a Soma.”
E nello stesso periodo la mamma di Taro:
“Tarō ha fatto il test all body ed è risultato positivo al cesio. Su 50 bambini della nostra città, solo lui. Perché proprio lui? Io e mio marito siamo sconcertati. Ho chiesto alle istituzioni di fare qualcosa, non solo le analisi a scadenza, mentre il tempo passa e peggiora le cose. Il rifugio dove siamo stati da fine agosto a fine ottobre chiuderà, e noi continuiamo la vita da nomadi. Non è facile trovare un equilibrio. Aspettiamo che ci facciano sapere dove vivere per i prossimi mesi.”
Le mamme arrivate da Fukushima avevano aderito volontariamente all’iniziativa, ma anche questo aveva richiesto una forza interiore, che non c’era e andava ricostruita. Ci hanno raccontato di come sia stato difficile all’inizio persino decidere di raccogliere informazioni; il passo successivo sarebbe stato ottenere un documento d’identità, tenendo costantemente a bada un senso di colpa, forte tanto quanto il desiderio di portare, anche per poco, i loro bambini altrove. Un assessore della zona evacuata ci ha detto delle mille difficoltà oggettive a divulgare notizie su questo ed altri programmi simili; per chi avesse deciso, si trattava poi di raggiungere in qualche modo la stazione o un aeroporto per arrivare a Tokyo, preparare bagagli che non si poteva tirar fuori dai cassetti, avere anche una minima disponibilità economica per le spese vive, ma soprattutto rinunciare a dare una mano a chi stava cercando di ricostruire da zero case, lavoro, futuro, e avere in animo di affrontare il biasimo quasi certo di chi restava. All’arrivo non avevano che piccole borse da viaggio, in alcuni casi con dentro un solo cambio: quanto erano riuscite a mettere insieme. Nel mese, poco più o poco meno, trascorso insieme abbiamo lentamente ma profondamente, per quanto il dolore sordo consentiva, familiarizzato. Le formalità sembravano dimenticate, i bambini giocavano, le mamme erano qui, serene nei momenti rari in cui ci è riuscito di farle sentire “ a casa”. Ma loro e noi sapevamo che al ritorno una casa non c’era.
A due anni di distanza, questa volta senza la mamma, la bimba che gridava di stupore sulla spiaggia è tornata in Italia, ospite di una famiglia. Il volto gioioso e attento incorniciato dai lunghi capelli lunghi neri era scomparso. E’ vero, i bambini cambiano in fretta, ma quasi non era riconoscibile con il taglio corto e gli spessi occhiali da vista neri. Soprattutto la sua espressione era mutata. Le altre bambine, al vedere la foto che la ritraeva spensierata due anni prima, le si sono fatte intorno gridandole “non sembri tu, torna a sorridere come nella foto”. Momo forse non immagina ancora quanto la mamma sia preoccupata per il suo futuro di adolescente che s’innamorerà, o potrebbe decidere di sposarsi. Se il matrimonio fosse di quelli “combinati”, frutto di un’incontro consenziente ma organizzato da un intermediario di professione, uno di quelli in cui prima di decidere si prendono e si richiedono informazioni dettagliate sui futuri coniugi, chi accetterebbe di avere come madre dei propri figli una donna contaminata dalle radiazioni? Il matrimonio combinato(o-miai kekkon) è in Giappone un istituto mai tramontato e la preoccupazione della mamma di Momo sarà quella di tutte le altre madri con una figlia nelle stesse condizioni, esattamente come fu per la madri di Hiroshima dopo l’atomica. Pensarlo fa spavento. Momo nel frattempo aveva avuto una sorellina, ma la mamma, scoprendosi incinta, era disperata: come affrontare una gravidanza quasi certamente a rischio, e se andasse tutto bene, quale futuro dare a una creatura che dovrà da subito essere difesa e tenuta la riparo dal rischio conclamato delle radiazioni?
Okaasan scopre di essere incinta
“Io…mi sento confusa. Il dono di una gravidanza, adesso… Al mattino ho la nausea. Mi tormentavo al pensiero che Momo sarebbe rimasta figlia unica, ma, ora, sono davvero felice di essere incinta? Come faccio? So che a Minamisoma sono disponibili 100 rilevatori da polso delle radiazioni per le donne in gravidanza, il monitoraggio prevede che ogni mese ci diano il risultato. Ci sto provando, ma ogni mese recarsi fino ad Haramachi è uno strazio. Momo ora sta bene e si diverte, stanno preparando il saggio di danza, ma fino all’altro giorno aveva 40 di febbre. E’ passata.”
Trascorsa metà anno dalla tragedia, con l’autunno incipiente e le mezze verità della Tepco e delle istituzioni, la gente del luogo, esasperata e confusa, ha organizzato una grande assemblea pubblica, durante la quale una donna si è rivolta ai presenti con un appassionato discorso:
Il discorso di Ruiko Mutou
“….L’incidente di Fukushima resta a gravare sulle spalle dei bambini, dei giovani. La nostra generazione è responsabile di questa verità, e sento dal profondo di volermi, dovermi, scusare con loro.Vi chiediamo scusa, dal profondo del cuore. Fukushima è un posto meraviglioso. Ad est il lungomare che guarda l’azzurro intenso dell’Oceano Pacifico. Pesche, mele, pere sono il tesoro dei campi prospicienti. Tra il Lago Inawashiro e il monte Bandai si trova la piana di Aizu inondata di spighe di riso dorate, alle cui spalle si susseguono fitte le cime dei monti. E’ la nostra Fukushima dalle montagne azzurro cupo da cui scorre acqua limpida. Al confine con la centrale esplosa, in questo paesaggio, invisibili ad occhio nudo, piovono le radiazioni e noi siamo contaminati. Nel caos ci è accaduto di tutto. Siamo stati abbindolati dalla campagna immediata di tranquillizzazione messa in atto, mentre l’ansia cresceva; siamo stati lacerati, divisi a forza e poi riavvicinati dalle circostanze. Quanta sofferenza ci ha travolto, nel calpestare il suolo, nel lavoro, in famiglia, a scuola, ovunque?Ogni giorno siamo stati incalzati da domande senza risposta e decisioni che non sapevamo prendere. Mangiamo, non mangiamo? Stendiamo fuori il bucato o non lo stendiamo? Facciamo indossare ai bambini la maschera antigas, o no? Torniamo ai coltivare i campi o lasciamo stare? Parliamo di un certo argomento, o ci teniamo il peso in silenzio? Abbiamo dovuto di volta in volta fare i conti con ognuno di questi dubbi. Ora, a distanza di tempo, sono passati giorni e mesi, sei mesi, e ci appare chiaro che:
– la verità ci è stata nascosta
– lo stato non ci protegge
– l’incidente nucleare non è finito lì
– la popolazione di Fukushima è materiale d’esperimento sugli effetti del nucleare
– resta un’enorme quantità di scorie nucleari
– non è bastato il nostro sacrificio, qualcuno ha ancora l’ardire di continuare a sostenere il nucleare
– ci hanno abbandonato
Siamo qui per dire Non ci prenderete in giro! Non ci ruberete la vita!
Con dolore e orgoglio ci rialziamo
Difendiamo i nostri figli, madri, padri, nonni
La nostra generazione è ancora in tempo a non farsi sottrarre la vita
Proteggiamo tutti lavoratori cavie esposti a una quantità pericolosa di radiazioni per riparare i guasti della centrale
I contadini disperati di fronte alla terra contaminata
Leviamoci contro la nuova discriminazione in atto verso i contaminati e gli svantaggiati
Proteggiamo ognuno di noi
Le responsabilità del Paese e della TEPCO restano blindate. Ora dicono che la centrale non serve più. Noi, adesso, siamo i demoni del nord est, che bruciano di rabbia in silenzio.
Noi abitanti della prefettura di Fukushima, sia quelli che se ne allontaneranno, sia quelli che resteranno, condivideremo angoscia, responsabilità e speranza, continueremo a vivere sorreggendoci a vicenda.
Aiutateci. Non lasciate che Fukushima venga dimenticata……
Ognuno di noi ha il coraggio per cambiare. Riprendiamoci le sicurezze che ci sono state tolte
Come fare a ricostruire un mondo nuovo in cui esistono centrali e contatori geiger? Nessuno di noi può dare una risposta certa. Qualcosa di possibile però c’è: non seguire ciecamente le decisioni di qualcuno che ha deciso per noi, al contrario ognuno di noi può pensare e decidere con la propria testa, aprire bene gli occhi, prendere una posizione su quello che può, con profonda e sincera determinazione. Sono convinta che ognuno di noi ha questa forza”
Allo stato attuale, dopo la verità centellinata ed orribile sul pericolo di radioattività, i bambini rimasti nella prefettura di Fukushima non sono molti, circa 200. Si occupa di loro come può una volontaria che chiameremo Yoko. Yoko è una donna eccezionale. Si trovava per caso a Fukushima quando c’è stato lo tsunami, era tornata a casa in vacanza per stare con la famiglia. Da quel momento in poi non si è più mossa. Yoko è una donna addestrata al salvataggio di vite umane perché volontaria dell’esercito di autodifesa giapponese. Ha tratto in salvo sè stessa, la famiglia e tutti quelli che ha potuto, tranne un bambino di 3 anni: lo conosceva e ha stretto forte la sua mano mentre l’onda lo trascinava, ripetendosi non devo lasciarlo, ma l’onda se l’è portato via. Riesce a parlarne e piangiamo insieme. Yoko improvvisamente ingrassa di molti chili e perde i capelli, suda senza motivo. Nessuno le diceva cosa avesse; non era possibile per mille lungaggini burocratiche fare le analisi, urgenti, nelle strutture sanitarie di zona. Si è convinta che l’unica sia andare all’ospedale di Hiroshima, dove le hanno diagnosticano una grave disfunzione tirodea. Yoko non si era mai allontanata da quella terra, ma le scorie radioattive non hanno avuto pietà del suo prodigarsi incessante. E’ l’unica ad occuparsi di counseling, ad ascoltare il dolore e il disagio di tanti. Riferisce che il solo lenitivo per molti consiste negli psicofarmaci. Se ne abusa, comprensibilmente e preoccupantemente. A nominarle l’OMS di Ginevra a cui chiedere aiuto per un’intervento sistematico, s’innervosisce: a Fukushima i protocolli non aiutano. Servono piuttosto strutture che diano esiti certi sulle analisi del sangue e delle urine: i più fortunati, a proprie spese vanno a farli lontano da ospedali che non rilasciano cartelle cliniche. Yoko racconta di tante persone, tanti“casi”: ha potuto solo abbracciare una ragazza che ha contratto l’AIDS dopo lo tusnami. Padre alcolizzato, madre con disagio mentale acuito dal sisma, la ragazza minorenne se ne va a Sendai, la città, per sfuggire a tutto. Va a letto con chi capita pur di mettere insieme qualcosa per vivere, finché dopo un rapporto non protetto va in bagno e vede sullo specchio la scritta – ad insaputa di lei tristemente nota- “benvenuti nel mondo dell’AIDS”. Yoko la ascolta, disperata. Da qui cerchiamo via internet un ospedale che possa fornire cure a una minorenne sieropositiva. Le cure sono assicurate per un anno. Poi chissà.
A chi è rimasto, o è stato esortato a tornare a Fukushima – perché non c’è pericolo, dicono- viene offerta un’occasione di guadagno, che significa sostentare la famiglia. Ma le famiglie, già decimate dai lutti, conoscono ora spaccature insanabili e ricatti insopportabili: troppo comodo che le donne stiano al riparo mentre il capofamiglia è lì da solo a sgobbare: “torna/vieni o sarà il divorzio”. Questa ingiunzione spesso non arriva dai coniugi, ma da suocere e suoceri che in età avanzata non contemplano la possibilità di ricominciare, e a vivere da soli, ormai, non ce la fanno.
Ho chiesto a Yoko se avesse un desiderio grande: la risposta è stata “ tranquillità”. Riuscire a cancellare l’angoscia del domani, non in senso lato, ma proprio poter aprire gli occhi e pensare “oggi sarà una giornata tranquilla”. Inevitabilmente, tutti si chiedono: perché noi? Perché Fukushima? Alcune risposte ormai hanno preso forma, altre non l’avranno mai. Le donne e tutti i sopravissuti di Hiroshima e Nagasaki continuano a portare la loro testimonianza in giro per il mondo. Vogliamo che anche le donne di Fukushima sopravvivano, e vogliamo aiutarle a parlare.
Finiva qui, stringato e con tanti omissis, la mia/la loro voce all’Aquila nel 2013. Con rabbia e dolore sordo, devo aggiungere quanto è accaduto a Yoko, dopo. Ha contratto un cancro all’intestino, sottoporsi all’intervento è stata un’umiliante, incomprensibile odissea. Yoko a un certo punto ha avuto il sospetto che stesserro ‘studiando’ il suo caso, così come molti altri. L’ospedale di zona che le aveva diagnosticato il tumore ha temporeggiato inspiegabilmente, adducendo sulle prime la mancanza di sacche di sangue compatibile per poter procedere. In un mese la metastasi è aumentata a dismisura. Operata infine altrove, con probabilità di sopravvivenza minime, a 38 anni ha lottato e vinto la prima battaglia con la morte. Tornata a casa su una sedia a rotelle e dilaniata dai dolori, ha come unico obiettivo ricreare un centro d’ascolto, perché durante la sua assenza i tentativi di suicidio sono stati numerosi.